Fonte: www.panicoefobie.it
Intervento strategico-sistemico per le famiglie e i giovani dipendenti da Cannabinoidi.
Dott.ssa C. Portelli e dal Dott. M. Papantuono
Dipendenza da ‘sostanze’: un fenomeno sociale diffuso
L’uomo contemporaneo plasmato dall’illusione, di poter raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi essi possano essere, senza indugio e con poca fatica (Nardone, 2003) cerca rimedi miracolosi, sostanze, che non richiedono nessuno sforzo e tende ad attribuire alle sostanze il potere illusorio di superare in un attimo, miracolosamente, qualsiasi problema o stato di sofferenza. Infatti, anoressizzanti, sonniferi, ansiolitici, farmaci per la concentrazione, alcolici, hascish, marijuana, cocaina, e altre sostanze, si trovano a portata di mano ovunque e vengono assunti con la stessa facilità con cui si butta giù un bicchier d’acqua. La sostanza diventata tra gli investimenti uno dei più redditizi, è considerata il mezzo privilegiato per raggiungere lo stato che si desidera: quel benessere privo di sofferenze, fatiche e dolori.
Nell’età adolescenziale, il giovane -facile alla noia, incapace di pazientare, che esige tutto e subito- quando cade nella rete dell’illusione-delusione si agita e tenta di liberarsi (in queste occasioni può andare alla ricerca di qualcosa che l’aiuti, spesso, stimoli/sostanze pericolose per il buon funzionamento fisiologico, psicologico e sociale) ma così rischia di operare contro se stesso e il tentativo di risolvere i problemi che vive aggravano la situazione creando ulteriori problemi.
Molti giovani consumano droghe perché esse sono ritenute un mezzo facile ed efficace per gestire le tempeste emotive (paure, rabbia, dolore e piacere) che a questa età sono vissute intensamente. Le droghe, spesso, per il giovane uomo privo di esperienze, diventano una soluzione per conseguire obiettivi considerati importanti ma invalicabili, come conquistare la stima dei pari, il cui giudizio spesso è tutto; facilitare la socializzazione, superando paure ed inibizioni; assumere l’immagine vincente del trasgressivo che non ha paura di osare; ricercare la propria identità per farsi valere nel mondo, abbandonando l’immagine di sé infantile e dipendente dagli adulti; esplorare parti sconosciute di sé e dunque allargare le proprie identità; evitare di essere responsabilizzati, ed altro. In sintesi, sembra che la sostanza venga considerata come il mezzo più veloce per far diventare “come si vorrebbe essere” (Rigliani, 2004). L’idea irrazionale del giovane “non ce la farò da solo”, viene confermata ed alimentata con l’atto razionale (Watzlawick, Nardone 1997), cioè l’assunzione che conferma la credenza negativa di sé: “la profezia diviene la causa principale degli eventi preannunciati” (Hobbes, 1969) e si “crea qualcosa dal nulla”.
Col tempo, questa credenza basata su di una profezia negativa su se stessi, va a consolidare e a mantenere, attraverso il sollievo psicologico e il piacere fisiologico che procura lo stupefacente, il circolo vizioso, autodistruttivo.
L’assunzione ripetuta consolida la percezione negativa di sé e conferma la credenza di essere una persona impotente ed incapace di gestire, solamente, con le proprie risorse la propria vita. Infatti, ogni volta che il ragazzo assume la sostanza viene avvolto da due messaggi e intrappolato in un doppio legame (Bateson, Jackson, Haley, Weakland, 1956; Nardone, Watzlawick, 2005; Nardone Portelli, 2007). Uno, più chiaro ed immediato, “la droga è la soluzione per i miei problemi”, l’altro, più sottile ma ugualmente forte “senza la droga non ce la posso fare”. Quest’ultimo messaggio lentamente si radica. La delega alla sostanza, che svolge un ruolo sempre più insostituibile, incrementa la sfiducia circa le proprie capacità.
Tutte le sostanze, quindi, quando diventano una tentata soluzione fallimentare reiterata nel tempo funzionano come un’armatura: proteggono ma allo stesso tempo imprigionano.
In questi casi, se si segue una logica lineare di causa-effetto che tende a ricercare cause e colpe negli adulti della famiglia per ogni problema dei figli, è facile che si produca un ennesimo tentativo di soluzione che andrà a complicare il problema. Conoscere le causa passate aiuterebbe a risolvere il problema? E’ possibile intervenire sul passato?
Nei sistemi, infatti, più che di cause specifiche si parla di concause e queste possono essere tante e tali che difficilmente possono essere ricondotte ad un evento o ad una persona, per cui è opportuno rifarsi ad un modello circolare che considera il sistema individuo inserito in un micorsistema inserito a sua volta in un mesosistema.
La vasta letteratura sulle dipendenze ma in particolar modo l’esperienza clinica svolta in questi quindici anni presso il CTS di Arezzo e i centri affiliati, ci ha portato a riconoscere l’alta resistenza al cambiamento dei giovani che usano, abusano o sono dipendenti da sostanze leggere come i cannabinoidi. Tali soggetti possiamo definirli oppositivi compiaciuti. La sostanza offre loro numerosi vantaggi (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005, Papantuono, 2007): vantaggi dati direttamente dalla sostanza (sensazioni piacevoli date dall’alterazione fisiologica; alienazione da problemi; accettazione da parte del gruppo dei pari, ecc…) ed altri, più indiretti, secondari, offerti paradossalmente dal sistema familiare che trattando il ragazzo da malato scusa e accetta il comportamento irresponsabile, non esige cose particolari, per la paura di cose peggiori non insiste, non avanza richieste, ecc.... Facile comprendere come in situazioni siffatte questi soggetti difficilmente cercano soluzioni e aiuti. Ciò può avvenire solo se i vantaggi secondari a cui erano abituati vengono a mancare (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005, Papantuono, 2007).
Per questo l’intervento strategico-sistemico coinvolge in primis la famiglia, che oltre a vivere e a segnalare questa dipendenza come problema, nella maggior parte dei casi è corresponsabile nell’alimentare i vantaggi di tale uso, abuso o dipendenza, finendo con tutte le buone intenzioni, come esplicita una massima di Oscar Wilde, a produrre le peggior conseguenze.
Comunemente i tentativi messi in atto per aiutare i figli, compiuti dalle famiglie di coloro che usano, abusano o dipendono da sostanze leggere, si collocano su di un continuum che vede agli estremi “fare sempre di più perché non è mai abbastanza”, ovvero, la famiglia che si carica di ogni responsabilità, sostituendosi al figlio “debole” evitandogli sforzi, difficoltà e responsabilità (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001): il giovane “continua a fare quello che faceva aspettando il miracolo che cambierà la sua situazione “che tutto sommato non dispiace”. I rigidi “modelli di famiglia” iperprotettivi, democratico-permissivi, sacrificanti, (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001) si collocano sull’estremo in cui c’è “troppa responsabilizzazione”, invece i deleganti e gli autoritari possiamo farli rientrare tra coloro che si “deresponsabilizzano”. Gli intermittenti, appunto, variano.
Dall’altra parte, quindi, ci sono genitori, che sentendosi disarmati si arrendono alla situazione. Credendo di non poter far più niente o non volendo fare niente, si deresponsabilizzano completamente o delegano totalmente ad altri l’aiuto del figlio: parenti, amici, esperti, scuola, ecc….
Andando a semplificare ci si rende conto che il comune denominatore in tutti i casi, nonostante le differenze, sono le tentate soluzioni e le credenze disfunzionali o le profezie lanciate. In considerazione di ciò l’intervento strategico sulle famiglie punta:
al blocco delle tentate soluzioni ridondanti con manovre dirette o/e indirette;
a ristrutturare la credenza disfunzionale sottostante: cambiare la profezia.
In entrambi le tipologie, in tutti questi casi, infatti, parte una retroazione negativa, dove il giovane, risponde esattamente allo stesso modo, continuando a fare quello che fa: usare la sostanza!
L’uno e l’altro di questi due estremi, rovescio della stessa medaglia,in genere, sono le tentate soluzioni che caratterizzano i diversi modelli di relazione familiare (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001) dai quali il giovane potrebbe aver ereditato -per effetto di imitazione o per effetto di ribellione- le modalità di approccio alla sostanza:
- di protezione, dalle emozioni negative o dal mondo esterno pericoloso;
- di permissività, anche rispetto a ciò che è “vietato” che viene giustificato da ragionamenti;
- di sacrificio, per quello che si è fatto/per quello che si vuole;
- di sfida, di ricerca di potere e di autorità o di abbandono al potere verso il quale nulla si può;
- di delega, delle responsabilità o dell’irresponsabilità, dei successi e dei fallimenti;
- di provare sempre qualcosa di diverso, o per curiosità, o in funzione del momento, o di come ci si sente in certi momenti.
Nella maggioranza dei casi, i ragazzi vengono portati in terapia dai genitori. Essi non ritengono che l’uso della sostanza sia un problema e minimizzano la preoccupazione a riguardo. Soprattutto in questi casi ma anche nei casi dove gli individui hanno un disperato bisogno di cambiare, comunque, focalizzare la terapia sulla loro dipendenza innalza la resistenza. Perciò dalla nostra esperienza clinica, ci siamo resi conto che i suggerimenti sono accolti più facilmente quando si crea un’alleanza: quando il terapeuta riesce a sintonizzarsi con il “mondo” del paziente e a parlare il suo linguaggio (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Infatti, per evitare di entrare in simmetria, viene proposto un’incontro con il soggetto al quale si dichiara di voler valutare il grado di gravità reale che potrebbe non coincidere con la visione presentata dal genitore.
Essi spesso non riconoscono la sostanza come problema. L’esperienza clinica ci mostra che questi ragazzi “si pentono” e cercano soluzioni e aiuti, solo quando i vantaggi a cui erano abituati vengono a mancare, vivendo così la parte oscura delle loro scelte. Sarà la terapia che condurrà indirettamente questi soggetti a riconoscere che questa situazione sta creando loro dei problemi nel rapporto con i genitori, con gli altri, nello studio, ed altri difficoltà che loro non riescono a gestire. L’obiettivo terapeutico nella terapia individuale che si concorda con il ragazzo è “imparare a gestire meglio la propria vita”, e ciò, indirettamente va a cambiare la percezione e la reazione del rapporto con la sostanza. Il terapeuta prima si allinea con la percezione dell’interlocutore, poi attraverso il dubbio che silenziosamente agisce come un tarlo, lascia che da solo, l’interessato, scorga lo scenario autodistruttivo (Nardone, Loriedo, Zeig, 2006) riservato a chi conduce quello stile di vita. Con queste manovre, le resistenze non vengono direttamente contrastate, bensì vengono utilizzate come energia che spinge verso la modifica delle reazioni esistenti (Nardone, Loreido, Zeig, 2006). Con l’eliminazione dei vantaggi secondari provenienti dal sistema circostante che si trasformano in difficoltà sempre più pesanti; il cambiamento della situazione, che agisce anche sull’effetto piacevole dato dalla sostanza (totale quando si è completamente deresponsabilizzati); il dubbio, che persuade più di ogni altra spiegazione logico-razionale (Newton Da Costa, 1989), che non lascia presagire niente di buono nel futuro, cosa che trova conferma già nella situazione presente (le reazioni della famiglia) cambiata con le prescrizioni terapeutiche; tutto questo, lascia al giovane un’unica possibile alternativa alle precedenti e ormai sconvenienti, reazioni patogene, ovvero orientarsi verso la terapia e cercare di venirne a capo nel migliore dei modi.
Tentare di convincere qualcuno a smettere di fare uso di qualcosa che piace utilizzando una modalità logico-razionale, dunque, oltre a non essere funzionale perché considera il comportamento e non la credenza sottostante (Nardone, Watzlawick, 2006), aumenta la frustrazione e le ansie addolcite subito dopo da ciò dà piacere: diventa la tentata soluzione che complica il problema. In questi casi, quindi, la terapia oltre all’intervento nel sistema famiglia deve puntare al cambiamento della profezia o della credenza sottostante per arrivare al cambiamento del comportamento vizioso. Questo in seduta avviene grazie alle continue parafrasi ristrutturanti (sottili tecniche persuasorie utilizzate nel dialogo strategico). Il lavoro prosegue, incrementando e potenziando le risorse già presenti, e con l’esercizio l’eccezione diviene la regola. Metaforicamente, si blocca la porta col piede per far spazio al resto del corpo.
Quindi, anche se in un momento diverso, anche se può sembrare che si lavori su un punto diverso rispetto a quello richiesto dalla famiglia (il problema sostanza), in realtà, gli obiettivi che il terapeuta concorda con il ragazzo, oltre ad essere funzionali a tutte le parti in gioco, nel concreto agiscono sulle incapacità originarie, ciò che ha fatto volgere il ragazzo verso la sostanza. Ovvero, quelle difficoltà (con sé, con gli altri e con il mondo) che, in un età come quella adolescenziale, se non si sa come affrontarle adeguatamente, dopo aver provato qualche droga, si può pensare che da sole possano svanire. Difficoltà che riflettono il bagliore della soluzione veloce ed immediata, la quale, se rigidamente reiterata nel tempo, col tempo, silenziosamente consente al vecchio problema di insidiarsi, di complicarsi e di trasformarsi. Come nel gioco delle scatole cinesi la scatola più grande ne contiene un’altra, così il nuovo problema presentato conterrà quello precedente