sabato 26 febbraio 2011

Identificare e utilizzare le resistenze del paziente



Identificare e utilizzare le resistenze del paziente

Premessa

Cedi e sarai intero. Piegati e vincerai. Vuotati e sarai colmo. Il duro e l’inflessibile vengono infranti dal mutamento; il flessibile e il cedevole si piegano e prevalgono.
Ray Grigg, Il Tao delle relazioni tra uomo e donna







La resistenza in fisica è l’opposizione di un corpo o di un materiale  a farsi cambiare dall’esterno, la tendenza all’omeostasi. L’esterno (forza, corrente, pressione, ecc…) però in funzione delle prove specifiche con cui va a “sollecitare” il corpo può acquisire utili informazioni sul corpo stesso e può  misurarne la resistenza.

In psicoterapia cosi come in fisica la relazione tra il paziente (il corpo) e il terapeuta (l’esterno) prevede la resistenza. In questa particolare relazione essa può essere percepita o come un gradino utile per saltare e andare più lontani o può diventare come una pietra che fa inciampare e cadere.

Individuare la resistenza, sfruttarla attraverso la selezione del linguaggio e delle tecniche idonee, degli stratagemmi adeguati, questo consente al terapeuta di sintonizzarsi col paziente e di creare colui un clima di collaborazione che rende efficace ed efficiente il processo terapeutico nel suo complesso.
Nell’arco degli anni la ricerca sui casi effettuata dal team di ricercatori del Centro di Terapia Strategica presenti in tutta Italia, supervisionati mensilmente dal Professor G. Nardone, ha permesso di individuare quattro diverse tipologie di resistenza al cambiamento (Watzlawick, Nardone, 1997).

1)      Il <<collaborativo>>. È la persona che ha reali risorse cognitive ed è motivato al cambiamento. Sin dal primo contatto, si mostra non oppositivo e non squalificante. Si è constatato che la comunicazione che produce i cambiamenti desiderati più rapidamente è quella di tipo razionale-dimostrativo: a chi ci richiede il trattamento viene chiarito come si sta procedendo e i possibili effetti di ciò che viene indicato. Bisogna ricordare che questa persona pur essendo collaborativa non è un “addetto ai lavori”, per cui, la sua prospettiva sulla realtà ritenuta disfunzionale, ogni cosa, gli dovrà essere spiegata e ridefinita seguendo la logica <<cartesiana>>: deve comprendere ciò che non funziona in modo che possa essere portato verso una forma di cambiamento consapevole. Dalla nostra esperienza, i soggetti che rientrano in questa tipologia di resistenza, purtroppo sono pochi. Lo specialista dovrebbe accettare la collaboratività ma allo stesso tempo misurarla e lasciare che i fatti dimostrino che ci stiamo ritrovando di fronte ad un essere realmente collaborativo. Pertanto, l’indicazione è quella di procedere “step by step” (costruire un primo piccolo accordo, sulla base del quale costruire un secondo, sulla base del quale costruirne un terzo, e così via) sino al raggiungimento dell’accordo generalizzato. Ovvero: << Bloccare la porta con il piede per fare spazio al resto del corpo>>. Nel concreto, di solito, si dimostrano collaborativi sin dal primo incontro coloro che richiedono un intervento indiretto, ad esempio, in clinica un genitore che ha perso il controllo sul figlio, un partner consapevole che se continua così il suo rapporto finirà; nell’ambito del lavoro, un responsabile che vuole gestire meglio i suoi dipendenti, ecc… Tutte persone molto motivate, che non godono di vantaggi secondari dal disturbo, stremate dal problema. In questi casi, per ottenere il massimo col minimo, è opportuno collaborare, eleggere a coterapeuta chi ci chiede aiuto, sfruttare le risorse disponibili, farlo partecipare attivamente all’intervento, spiegargli le logiche delle tecniche che si stanno utilizzando e svelargli gli stratagemmi da utilizzare. Ovviamente la persona che si rivolge a noi sarà tanto più motivata a seguirci quanto più i risultati sono tangibili ed evidenti. Nelle terapie dirette, invece, la maggior parte delle volte, il paziente viene reso collaborativo. Questo traguardo, di solito segnato dal cambiamento di primo ordine, diviene il punto di partenza e semplifica i successivi cambiamenti che condurranno al cambiamento di secondo ordine.    

2)      Chi vorrebbe essere collaborativo ma non può: è uno con grande motivazione e necessità di cambiare. Tra questi pazienti vi sono: quelli che percepiscono il cambiamento come difficoltoso; altri, invece, si sono arresi al problema. In questi ultimi casi le tentate soluzioni reiterate nel tempo, oltre a mantenere e a complicare il problema, contribuiscono ad alimentare la resistenza che si è insidiata a tal punto da far perdere ogni speranza allo “sfortunato di turno”. Usualmente i soggetti in questione arrivano accompagnati da parenti (famigliari resi vittime dalla situazione). Sono quei pazienti che hanno l’illusione di poter controllare il problema, ad esempio chi lamenta ossessioni compulsive, chi è incastrato nel loop abbuffata-vomito ma che vorrebbe interromperlo, chi si astiene dal cibo o che in esso trova un sicuro rifugio fino al punto da non riuscire più a fare diversamente, persone invalidate, sfinite, rese schiave da ciò che un tempo aveva funzionato.
Anche le persone di questa categoria, come per altri, partendo da una premessa razionale attraverso una logica stringente arrivano a risultati irrazionali: costruiscono ciò che poi subiscono. Gradualmente si ingabbiano in una percezione della realtà disfunzionale e rigida e, sebbene comprendano razionalmente cosa dovrebbero fare per cambiare, non riescono a metterlo in pratica. Solitamente, blocchi emotivo-comportamentali, forti limitazioni di tipo morale-religioso, creano l’”imbroglio” e impediscono loro di agire nella maniera che ritenuta più funzionale.  
In terapia, in questi casi, soprattutto nei primi incontri, il paziente riuscirà a fare ciò che desidera solo se non si rende conto che lo sta facendo: la logica adottata è la stessa dettata dall’antico stratagemma cinese “solcare il mare all’insaputa del cielo” (anonimo 1990). Il terapeuta strategico prima di prescrivere, per predisporre il paziente al cambiamento riassume quello che avviene in seduta ed evoca sensazioni attraverso il linguaggio analogico. Per scuotere anche quelli più resistenti, quelli che si sono arresi, affinché seguano le indicazioni ristruttura la loro arrendevolezza avvalendosi dell’aforisma di Goethe “è sconfitto solo chi si arrende! La rinuncia è un suicidio quotidiano”. In genere il nostro interlocutore di fronte a tale affermazione resta in silenzio, viene colpito in pieno. Sarà disposto a seguirci per evitare di continuare a provare quella sensazione di sconfitta, per evitare di farsi distruggere dal disturbo. Le nostre indicazioni saranno come utili armi da sfoderare per combattere il nemico. La sensazione sperimentata incoraggerà, poi si sorprenderà alla prima vittoria: quando sente che può farcela solamente con le sue forze e mettendo in atto quelle indicazioni apparentemente illogiche e insensate. La sensazione di potercela fare riaccenderà la speranza. Il nostro paziente comincerà a vedere e a vedersi con una luce diversa. Si autoristrutturerà in seguito all’aver vissuto l’Esperienza Emozionale Correttiva (EEC). Le manovre velate, indirette, caricate di suggestione conducono il paziente verso la soluzione del suo problema. Inoltre, l’impressione di essere stato il protagonista principale del suo cambiamento lo renderà più collaborativo. Infatti, dopo lo stratagemma “solcare il mare all’insaputa del cielo”, il processo potrà tornare su criteri più cartesiani e razionalisti ed avvalersi della logica ordinaria. Il continuare a mettere in atto e a consolidare ciò che ha funzionato può diventare anche causa di quell’effetto che è il mio benessere”. Il soggetto verrà guidato al consapevole recupero delle sue risorse e delle sue capacità. 

3)              Il non collaborativo o oppositivo: questa tipologia di pazienti durante la sessione terapeutica squalificano, contestano, si oppongono. Al di fuori non osservano deliberatamente le indicazioni. Gli oppositivi possono essere: dichiaratamente tali, oppure più insidiosamente si celano sotto le spoglie di finti collaborativi.
Il primo led-spia è una richiesta esagerata, anche se presentata timidamente,  data come risposta alla domanda iniziale (“cosa la porta da noi?” o “qual è l’obiettivo che si è dato nel venire qui?”). Potrebbe essere un modo per opporsi alla terapia. Oltre a ristrutturare, si  ridefinisce  il problema o/e gli obiettivi evidenziandone l’improponibilità allo stato attuale (meglio sarebbe se attraverso il dialogo il paziente arrivasse a capirlo da solo). Sarebbe il primo intervento. Si disinnescherebbe la prima trappola tesa. In seguito, soprattutto se non eseguono i compiti, anche se ci sono stati piccoli cambiamenti che possono avvenire o nel corso della seduta o seguendo le prescrizioni basate sullo spostamento dell’attenzione, le possibilità che non si tratti di un collaborativo aumentano. Continuare a dubitare ed assumere la pozione dello scettico per evitare di farsi cogliere di sorpresa. Il terapeuta ingenuo credendo di trovarsi di fronte una persona disposta a collaborare, potrebbe compiere  l’errore o di cambiare continuamente le indicazioni, o di negoziare riguardo ai compiti da fare. Così facendo però colluderebbe col disturbo e, se va bene, allungherebbe i tempi di risoluzione altrimenti facendo il gioco della resistenza si creerebbero le basi per un piccolo rifiuto, seguito da altri fino a completarsi in un drop-out: queste modalità risulterebbero o poco efficaci o screditerebbero il terapeuta.
In genere i pazienti di questo tipo sono quelli che mostrano tratti ossessivi paranoici e depressivi, sono quelli che definiamo le “vittime del mondo”(i volti della depressione). In questi casi è opportuno persistere, essere direttivi e continuare a prescrivere le indicazioni già date e non eseguite.
Se seguitano a non mettere in pratica le indicazioni date al fine di evitare di sacrificare i vantaggi secondari che offuscano lo scenario futuro, a quel punto la resistenza al cambiamento di tipo oppositivo come macchia di olio resta in superficie. La proposta implicita di questi pazienti, in sintesi, è: il mondo e/o gli altri devono cambiare. In questi casi è opportuno perseguire con la stessa strategia: inflessibilità, piccoli passi nella stessa direzione e nessun compromesso. Lo stratagemma sarà “storcere per raddrizzare”. Frustrare ciò che esula dal problema individuato e da risolvere, richiamare all’impegno preso, rimandare le responsabilità: nella relazione porre “lineare contro circolare e circolare contro lineare”, ovvero rispondere con la simmetria (provocare, esorcizzare, aumentare) quando si avverte che stanno cercando complementarietà (nei momenti di vittimismo) e con la complementarietà quando esigono simmetria. A questo proposito ricordo il caso di un paziente che come il principe Ludwig rifiutava il mondo e restava chiuso nel suo castello ma allo stesso tempo si lamentava di questo dicendo che le persone erano troppo misere per lui. A tal riguardo aveva la presunzione di sapere cosa si sarebbe dovuto fare. Pretendeva dal terapeuta che intervenisse come lui si aspettava. Ma opportunamente provocato, sfociò in uno scatto di aggressività che il terapeuta abilmente sfruttò, ritorcendola su se stessa per annientarla:

P: … tu non mi aiuti quando sai come aiutarmi, perché tu lo sai come fare!
T: oh bellissimo!
P: perché tu non lo vuoi fare!?
T: ohhh! Allora, dimmi cosa so io che dovrei fare che mi rifiuto di fare?
P: lo sai bene! Tu dovresti, dovresti… incoraggiarmi, dovresti…puoi fare anche quello che fai ma devi riuscire a bilanciare, capisci?
T: poi, vai avanti, cos’altro dovrei fare per aiutarti?
P: Eh?!
T: Cos’altro dovrei fare per aiutarti, che io so che dovrei fare ma che mi rifiuto di fare?
P: ma tutto questo casino l’abbiamo fatto perché io ti devo dire quello che devi fare? devo sempre insegnare a tutti…
T: insegnami!
P: coi miei genitori, con tutti , devo sempre insegnare come fare…
T: devi essere sempre tu ad insegnare; ok! perfetto! fallo anche qui con me! Forza insegnami! 

Ad “effetto boomerang” il terapeuta ritorce la resistenza contro se stessa, mettendo il paziente in un doppio legame. Se non eseguiva l’indicazione significava, o che non sapeva cosa volesse e quindi umilmente si sarebbe dovuto affidare e seguire le nostre indicazioni, oppure accettare la situazione come il suo miglior equilibrio raggiungibile. Nel caso contrario, se ci insegnava: uno, assolveva al compito; due, sapeva cosa fare; tre, ci forniva degli strumenti che egli poi avrebbe dovuto mettere in pratica. In ogni caso si modificava il suo pattern relazionale.
Oltre a questi casi poi vi sono quelli dichiaratamente oppositivi sin dal primo incontro,in genere sono persone costrette a seguire la terapia. Sono soggetti che non si rendono conto delle difficoltà, anzi, traggono enormi vantaggi dalla situazione. Di questa sotto categoria fanno parte ragazzi adolescenti difficili, carcerati per i quali è previsto un percorso alternativo di reinserimento, ragazze compiaciute dalla compulsione di mangiare e abbuffarsi, giovani anoressiche che non percepiscono i rischi che corrono, ecc… Ove sia possibile rapportarsi direttamente e porsi one up; nelle prime fasi della terapia ristabilire le gerarchie (sono persone che tastano il terreno per prendere spazio e sabotare l’intervento); evitare di cedere a compromessi e squalificare le richieste che potrebbero pervenire. Con questi pazienti è come trovarsi in un tunnel e completamente al buio, l’unica cosa da fare è puntare verso la luce proveniente dall’uscita più prossima, procedendo passo-passo per evitare di inciampare, cadere e perdere tempo. Nei casi in cui la terapia diretta non sia possibile, lavorare indirettamente. Si elegge a coterapeuta chi avanza la richiesta. In genere, già interrompendo le tentate soluzioni di coloro che stanno intorno, la situazione si sblocca e si hanno i primi risultati. La fiducia acquisita dona forza e va ad alimentare i risultati. L’interruzione del circolo vizioso dà origine ad un circolo virtuoso vantaggioso per ognuna delle parti.
In sintesi, a livello tecnico, per tutti i casi, si dimostrano efficaci le manovre paradossali e la modalità retorica-persuasoria basata sull’utilizzo della stessa resistenza. Prescrivendo la resistenza al cambiamento, si pone il soggetto oppositivo in una condizione a doppio legame e paradossale che, inevitabilmente qualunque cosa faccia, lo condurrà contro la resistenza. Infatti, se egli continuasse a non eseguire il compito significa che non sarebbe più resistente; invece se lo esegue, adempie ed ugualmente non sarebbe più resistenza. La resistenza prescritta diviene adempimento. Anche in questo caso, dopo i primi cambiamenti ottenuti mediante un processo di influenzamento e persuasione basato sul paradosso, si procederà ad una ridefinizione cognitiva del processo di cambiamento.

4)      La persona non in grado di collaborare né di opporsi. In ambito clinico si tratta di quei soggetti che presentano una <<narrazione>> di se stessi al di fuori di ogni ragionevole realtà. L’espressione di questa resistenza riguarda soggetti presumibilmente psicotici (a proposito: fare attenzione soprattutto se si tratta di giovani o adolescenti. Confusione, disorientamento, uscite psicotiche, soprattutto a quest’età potrebbero essere solo dei fenomeni temporanei. Per cui, il ripristino delle normali funzioni mentali si potrebbe riavere in breve tempo e completamente se opportunamente trattati e se si evita di etichettarli erroneamente come psicotici. Rientrano inoltre in questa categoria anche persone con sintomi deliranti col tempo cristallizzati) e tutte quelle persone con una rigidità mentale così forte da impedir loro di uscire dalla propria visione della realtà e di rapportarsi adeguatamente a tutti gli altri. Soggetti che si sono isolati costruendosi delle regole e delle strutture proprie per un gioco che solo loro conoscono. In questi casi il terapeuta per poter operare dovrà calarsi nel gioco, dare quantomeno l’impressione che quel gioco gli sia noto e che ne padroneggi le regole. Nella pratica come si fa? Considerare innanzitutto che partendo da premesse razionali, attraverso un processo logico stringente, questi pazienti sono giunti a conclusioni irrazionali; quindi fare particolarmente attenzione ed entrare nella logica della rappresentazione rigida, assumerne i codici linguistici, adottare la stessa modalità semantica e la stessa scala di valori, evitare qualunque negazione e squalifica di tale costruzione, aggiungere elementi per riorentare in direzione diversa. Il terapeuta dovrà seguire molto attentamente le tracce della narrazione portatagli e aggiungere gradualmente degli elementi al narrato attraverso ristrutturazioni e parafrasi ristrutturanti. Gli elementi che si aggiungono al racconto o al “delirio” del paziente, come un ponte rende più agevole il passaggio da una riva all’altra dello stesso fiume, fungeranno da congiunzioni ponendosi tra la precedente realtà inventata del paziente (spesso vissuta in modo angosciante e come insopportabile, soprattutto nei momenti di maggiore e relativa lucidità, ovvero quando non è sotto effetto di farmaci) e la realtà guidata che con il terapeuta si costruisce, progressivamente trasformeranno il <<narrato>>. Il terapeuta, quindi, apportando piccole variazioni farà prendere al racconto una nuova direzione e una nuova forma, che introdotta nella dinamica mentale della persona condurrà, se ben calibrata, al sovvertimento della resistenza rendendo la persona o in grado di opporsi o tendente a collaborare. Come l’entropia conduce un sistema fisico all’autodistruzione nella prospettiva di un’evoluzione, così introdurre all’interno della logica disfunzionale del soggetto elementi che non contraddicono né squalificano le sue rappresentazioni, finiranno col condurlo a una completa ristrutturazione e verso nuove direzioni.