sabato 26 febbraio 2011

Intervento strategico-sistemico per le famiglie e i giovani dipendenti da Cannabinoidi.



Intervento strategico-sistemico per le famiglie e i giovani dipendenti da Cannabinoidi.
Dott.ssa C. Portelli e dal Dott. M. Papantuono      
Dipendenza da ‘sostanze’: un fenomeno sociale diffuso
L’uomo contemporaneo plasmato dall’illusione, di poter raggiungere i propri obiettivi, qualsiasi essi possano essere, senza indugio e con poca fatica (Nardone, 2003) cerca rimedi miracolosi, sostanze, che non richiedono nessuno sforzo e tende ad attribuire alle sostanze il potere illusorio di superare in un attimo, miracolosamente, qualsiasi problema o stato di sofferenza. Infatti, anoressizzanti, sonniferi, ansiolitici, farmaci per la concentrazione, alcolici, hascish, marijuana, cocaina, e altre sostanze, si trovano a portata di mano ovunque e vengono assunti con la stessa facilità con cui si butta giù un bicchier d’acqua. La sostanza diventata tra gli investimenti uno dei più redditizi, è considerata il mezzo privilegiato per raggiungere lo stato che si desidera: quel benessere privo di sofferenze, fatiche e dolori.  
Nell’età adolescenziale, il giovane -facile alla noia, incapace di pazientare, che  esige tutto e subito- quando cade nella rete dell’illusione-delusione si agita e tenta di liberarsi (in queste occasioni può andare alla ricerca di qualcosa che l’aiuti, spesso, stimoli/sostanze pericolose per il buon funzionamento fisiologico, psicologico e sociale) ma così rischia di operare contro se stesso e il tentativo di risolvere i problemi che vive aggravano la situazione creando ulteriori problemi.
Molti giovani consumano droghe perché esse sono ritenute un mezzo facile ed efficace per gestire le tempeste emotive (paure, rabbia, dolore e piacere) che a questa età sono vissute intensamente. Le droghe, spesso, per il giovane uomo privo di esperienze, diventano una soluzione per conseguire obiettivi considerati importanti ma invalicabili, come conquistare la stima dei pari, il cui giudizio spesso è tutto; facilitare la socializzazione, superando paure ed inibizioni; assumere l’immagine vincente del trasgressivo che non ha paura di osare; ricercare la propria identità per farsi valere nel mondo, abbandonando l’immagine di sé infantile e dipendente dagli adulti; esplorare parti sconosciute di sé e dunque allargare le proprie identità; evitare di essere responsabilizzati, ed altro. In sintesi, sembra che la sostanza venga considerata come il mezzo più veloce per far diventare “come si vorrebbe essere” (Rigliani, 2004). L’idea irrazionale del giovane  “non ce la farò da solo”, viene confermata ed alimentata con l’atto razionale (Watzlawick, Nardone 1997), cioè l’assunzione che conferma la credenza negativa di sé: “la profezia diviene la causa principale degli eventi preannunciati” (Hobbes, 1969) e si “crea qualcosa dal nulla”.
Col tempo, questa credenza basata su di una profezia negativa su se stessi, va a consolidare e a mantenere, attraverso il sollievo psicologico e il piacere fisiologico che procura lo stupefacente, il circolo vizioso, autodistruttivo.
L’assunzione ripetuta consolida la percezione negativa di sé e conferma la credenza di essere una persona impotente ed incapace di gestire, solamente, con le proprie risorse la propria vita. Infatti, ogni volta che il ragazzo assume la sostanza viene avvolto da due messaggi e intrappolato in un doppio legame (Bateson, Jackson, Haley, Weakland, 1956; Nardone, Watzlawick, 2005; Nardone Portelli, 2007). Uno, più chiaro ed immediato, “la droga è la soluzione per i miei problemi”, l’altro, più sottile ma ugualmente forte “senza la droga non ce la posso fare”. Quest’ultimo messaggio lentamente si radica. La delega alla sostanza, che svolge un ruolo sempre più insostituibile, incrementa la sfiducia circa le proprie capacità.
Tutte le sostanze, quindi, quando diventano una tentata soluzione fallimentare reiterata nel tempo funzionano come un’armatura: proteggono ma allo stesso tempo imprigionano.  
In questi casi, se si segue una logica lineare di causa-effetto che tende a ricercare cause e colpe negli adulti della famiglia per ogni problema dei figli, è facile che si produca un ennesimo tentativo di soluzione che andrà a complicare il problema. Conoscere le causa passate aiuterebbe a risolvere il problema? E’ possibile intervenire sul passato?
Nei sistemi, infatti, più che di cause specifiche si parla di concause e queste possono essere tante e tali che difficilmente possono essere ricondotte ad un evento o ad una persona, per cui è opportuno rifarsi ad un modello circolare che considera il sistema individuo inserito in un micorsistema inserito a sua volta in un mesosistema. 
La vasta letteratura sulle dipendenze ma in particolar modo l’esperienza clinica svolta in questi quindici anni presso il CTS di Arezzo e i centri affiliati, ci ha portato a riconoscere l’alta resistenza al cambiamento dei giovani che usano, abusano o sono dipendenti da sostanze leggere come i cannabinoidi. Tali soggetti possiamo definirli oppositivi compiaciuti. La sostanza offre loro numerosi vantaggi (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005, Papantuono, 2007): vantaggi dati direttamente dalla sostanza (sensazioni piacevoli date dall’alterazione fisiologica; alienazione da problemi; accettazione da parte del gruppo dei pari, ecc…) ed altri, più indiretti, secondari, offerti paradossalmente dal sistema familiare che trattando il ragazzo da malato scusa e accetta il comportamento irresponsabile, non esige cose particolari, per la paura di cose peggiori non insiste, non avanza richieste, ecc.... Facile comprendere come in situazioni siffatte questi soggetti difficilmente cercano soluzioni e aiuti. Ciò può avvenire solo se i vantaggi secondari a cui erano abituati vengono a mancare (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005, Papantuono, 2007).
Per questo l’intervento strategico-sistemico coinvolge in primis la famiglia, che oltre a vivere e a segnalare questa dipendenza come problema, nella maggior parte dei casi è corresponsabile nell’alimentare i vantaggi di tale uso, abuso o dipendenza, finendo con tutte le buone intenzioni, come esplicita una massima di Oscar Wilde, a produrre le peggior conseguenze.
Comunemente i tentativi messi in atto per aiutare i figli, compiuti dalle famiglie di coloro che usano, abusano o dipendono da sostanze leggere, si collocano su  di un continuum che vede agli estremi “fare sempre di più perché non è mai abbastanza”, ovvero, la famiglia che si carica di ogni responsabilità, sostituendosi al figlio “debole” evitandogli sforzi, difficoltà e responsabilità (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001): il giovane “continua a fare quello che faceva aspettando il miracolo che cambierà la sua situazione “che tutto sommato non dispiace”. I rigidi “modelli di famiglia” iperprotettivi, democratico-permissivi, sacrificanti, (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001) si collocano sull’estremo in cui c’è “troppa responsabilizzazione”, invece i deleganti e gli autoritari possiamo farli rientrare tra coloro che si “deresponsabilizzano”. Gli intermittenti, appunto, variano.
Dall’altra parte, quindi, ci sono genitori, che sentendosi disarmati si arrendono alla situazione. Credendo di non poter far più niente o non volendo fare niente,  si deresponsabilizzano completamente o delegano totalmente ad altri l’aiuto del figlio: parenti, amici, esperti, scuola, ecc….
Andando a semplificare ci si rende conto che il comune denominatore in tutti i casi, nonostante le differenze, sono le tentate soluzioni e le credenze disfunzionali o le profezie lanciate. In considerazione di ciò l’intervento strategico sulle famiglie punta:
al blocco delle tentate soluzioni ridondanti con manovre dirette o/e indirette;
a ristrutturare la credenza disfunzionale sottostante: cambiare la profezia. 
In entrambi le tipologie, in tutti questi casi, infatti, parte una retroazione negativa, dove il giovane, risponde esattamente allo stesso modo, continuando a fare quello che fa: usare la sostanza!
L’uno e l’altro di questi due estremi, rovescio della stessa medaglia,in genere, sono le tentate soluzioni che caratterizzano i diversi modelli di relazione familiare (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001) dai quali il giovane potrebbe aver ereditato -per effetto di imitazione o per effetto di ribellione- le modalità di approccio alla sostanza:
- di protezione, dalle emozioni negative o dal mondo esterno pericoloso;
- di permissività, anche rispetto a ciò che è “vietato” che viene giustificato da ragionamenti;
- di sacrificio, per quello che si è fatto/per quello che si vuole;
- di sfida, di ricerca di potere e di autorità o di abbandono al potere verso il quale nulla si può;
- di delega, delle responsabilità o dell’irresponsabilità, dei successi e dei fallimenti;
- di provare sempre qualcosa di diverso, o per curiosità, o in funzione del momento, o di come ci si sente in certi momenti.
 
Nella maggioranza dei casi, i ragazzi vengono portati in terapia dai genitori. Essi non ritengono che l’uso della sostanza sia un problema e minimizzano la preoccupazione a riguardo. Soprattutto in questi casi ma anche nei casi dove gli individui hanno un disperato bisogno di cambiare, comunque, focalizzare la terapia sulla loro dipendenza  innalza  la resistenza. Perciò dalla nostra esperienza clinica, ci siamo resi conto che i suggerimenti sono accolti più facilmente quando si crea un’alleanza: quando il terapeuta riesce a sintonizzarsi con il “mondo” del paziente e a parlare il suo linguaggio (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). Infatti, per evitare di entrare in simmetria, viene proposto un’incontro con il soggetto al quale si dichiara di voler valutare il grado di gravità reale che potrebbe non coincidere con la visione presentata dal genitore.  
Essi spesso non riconoscono la sostanza come problema.  L’esperienza clinica ci mostra che questi ragazzi “si pentono” e cercano soluzioni e aiuti, solo quando i vantaggi a cui erano abituati vengono a mancare, vivendo così la parte oscura delle loro scelte. Sarà la terapia che condurrà indirettamente questi soggetti a riconoscere che questa situazione sta creando loro dei problemi nel rapporto con i genitori, con gli altri, nello studio, ed altri difficoltà che loro non riescono a gestire. L’obiettivo terapeutico nella terapia individuale che si concorda con il ragazzo è “imparare a gestire meglio la propria vita”, e ciò, indirettamente va a cambiare la percezione e la reazione del rapporto con la sostanza. Il terapeuta prima si allinea con la percezione dell’interlocutore, poi attraverso il dubbio che silenziosamente agisce come un tarlo, lascia che da solo, l’interessato, scorga lo scenario autodistruttivo (Nardone, Loriedo, Zeig, 2006) riservato a chi conduce quello stile di vita. Con queste manovre, le resistenze non vengono direttamente contrastate, bensì vengono utilizzate come energia che spinge verso la modifica delle reazioni esistenti (Nardone, Loreido, Zeig, 2006). Con l’eliminazione dei vantaggi secondari provenienti dal sistema circostante che si trasformano in difficoltà sempre più pesanti; il cambiamento della situazione, che agisce anche sull’effetto piacevole dato dalla sostanza (totale quando si è completamente deresponsabilizzati); il dubbio, che persuade più di ogni altra spiegazione logico-razionale (Newton Da Costa, 1989), che non lascia presagire niente di buono nel futuro, cosa che trova conferma già nella situazione presente (le reazioni della famiglia) cambiata con le prescrizioni terapeutiche; tutto questo, lascia al giovane un’unica possibile alternativa alle precedenti e ormai sconvenienti, reazioni patogene, ovvero orientarsi verso la terapia e cercare di venirne a capo nel migliore dei modi.
Tentare di convincere qualcuno a smettere di fare uso di qualcosa che piace utilizzando una modalità logico-razionale, dunque, oltre a non essere funzionale perché considera il comportamento e non la credenza sottostante (Nardone, Watzlawick, 2006), aumenta la frustrazione e le ansie addolcite subito dopo da ciò dà piacere: diventa la tentata soluzione che complica il problema. In questi casi, quindi, la terapia oltre all’intervento nel sistema famiglia deve puntare al cambiamento della profezia o della credenza sottostante per arrivare al cambiamento del comportamento vizioso. Questo in seduta avviene grazie alle continue parafrasi ristrutturanti (sottili tecniche persuasorie utilizzate nel dialogo strategico). Il lavoro prosegue,  incrementando e potenziando le risorse già presenti, e con l’esercizio l’eccezione diviene la regola. Metaforicamente, si blocca la porta col piede per far spazio al resto del corpo.  
Quindi, anche se in un momento diverso, anche se può sembrare che si lavori su un punto diverso rispetto a quello richiesto dalla famiglia (il problema sostanza), in realtà, gli obiettivi che il terapeuta concorda con il ragazzo, oltre ad essere funzionali a tutte le parti in gioco, nel concreto agiscono sulle incapacità originarie, ciò che ha fatto volgere il ragazzo verso la sostanza. Ovvero, quelle difficoltà (con sé, con gli altri e con il mondo) che, in un età come quella adolescenziale, se non si sa come affrontarle adeguatamente, dopo aver provato qualche droga, si può pensare che da sole possano svanire. Difficoltà che riflettono il bagliore della soluzione veloce ed immediata, la quale, se rigidamente reiterata nel tempo, col tempo, silenziosamente consente al vecchio problema di insidiarsi, di complicarsi e di trasformarsi. Come nel gioco delle scatole cinesi la scatola più grande ne contiene un’altra, così il nuovo problema presentato conterrà quello precedente

Dipendenze da sostatze stupefacenti



Brief Strategic-systemic approach to cannabis addiction. Involving the family system to help youngsters overcome cannabis addiction.

Dott. Matteo Papantuono & Dott.ssa Claudette Portelli 


Drugs addiction: a social phenomena
Advanced technology and medical advancement, has induced contemporary man to hold the illusion that his/her objectives (whatever they are), can be reached without linger and with very little effort invested (Nardone, 2003).   Even when faced by mundane challenging life-hurdles, we tend to look out for miraculous remedies and potions, entailing very little fatigue from our side, to anesthetizes this ‘intolerable pain’. Fat busters, sleeping pills, anxiolytics, concentration pills, anti-aging elisirs and pain relief pills, alcohol and other substances such as hashish, marijuana, cocaine etc., even though officially illegal, are still easily accessed and consumed to smoother out life in a more desirable way. Drug consumption embodies a key paradox of our society.  Even though they are considered dangerous and are thus illegal, drugs are amongst the most profitable investments of our times, and unfortunately they are held by their consumers as a prohibited yet privileged means of reaching a state of being, free from pain, fatigue and effort.  
The use, abuse and addiction of cannabis is often underestimate, often referred to as “innocuous light-drug”.  Yet cannabis can become both emotionally and mentally addictive. Addiction to cannabis is severe due to its affect on the user's brain. We are now aware of many facts about cannabis's effect on the body and how delta-9-tetrahydrocannabinol (THC), the major active chemical, acts in the human brain. When cannabis is smoked, THC travels quickly through the body and into the brain where it unites with specific receptors on nerve cells. Areas of the brain with the most receptors affected by THC are parts of the brain that control pleasure, thought, memory, sensory, concentration, time perception, and coordination. This is what induces physiological dependency.
Yet cannabis is highly addictive even psychologically. Once an individual becomes addicted to cannabis it develops into part of who they believe themselves to be. Avoiding their friends who do not use, the addict will gravitate to others that do. Cannabis is a topic that is always on their mind, whether it be thinking about the next time they will be able to get high or where their going to get their next sack.  We can call it addiction, when the person no longer do anything without first smoking. Their constant abuse is due to the misconception that cannabis is what they need in order to solve their problems (this will be elaborated further in the section Drugs an additional attempted solution: an operative diagnosis). Sometimes addicts will take their stash with them wherever they go, just in case they need to make use of it to face the situation better. Individuals might keep in contact with several dealers in order to make sure they always have a constant supply of cannabis.
The cost of cannabis use to the individual (whose addiction tends to escalate), is quite high. Individuals may suffer health and social consequences, memory and learning problems, and high absenteeism might rise problems at work or even result in even losing a job. While they usually end up isolating themselves from friends and family, this often puts a heavy strain on relationships with loved ones. There is a vicious cycle to cannabis addiction in which these problems are often used as a rational or an alibi to smoke even more pot. Cannabis addiction is a no-win situation that many unintentionally fall for to solve the problems, but this is a clear example of when the attempted solution becomes the actual problem.

Drugs an additional attempted solution: an operative diagnosis
Especially during adolescence, where the young adult is easily bored, impatient demanding everything here-and-now, often unprepared for the challenges offered by life, he can easily fall into the illusionary trap set by drugs, that of being able to  help him/her overcoming the problem, ending up entrapped in a psychological and physiological dependency which further aggravates his state.
Young people are even more prone to cannabis use since at this phase of life the individual is very vulnerable, very insecure about his self-worth and competence (Erickson, 1963).  This seemingly “innocuous light drug” is often regarded by these self-doubting youngsters as an easy and efficient  means of managing the emotional tempest (fear, anger, pain and search of pleasure), vividly and intensely lived during this critical age. Often drugs are regarded by the young inexperienced man, as a solution to reach desired yet rather challenging goals of prime importance at this age, such a: to be accepted and respected by one’s peers, whose judgment is imperative for the young man; to facilitate socialization and social integration, by overcoming one’s fears and inhibitions; to put on a winning transgressive image, who is not afraid to dare rules, norms, authority, etc; to find one’s own identity to measure one’s own worth in the world; to let go the child image and lose free from his dependency from the adults; to explore unknown aspects of oneself and thus widen one’s own identity; to avoid life responsibilities and others. Often faced by these challenges, the young man gets frightened and could belief that he “can’t make it on his own”. This sense of incapability makes him search for a miraculous effortless solutions and unfortunately drugs can at first, give this illusion. It seems as if the substance is regarded by the young consumer as a rapid means to become “how I would like to be” (Rigliani, 2004).  But besides failing in reaching this illusionary goal, the use of drugs becomes a true addiction, both physiologically but also psychologically confirming the underlying irrational idea,  “I cannot make it on my own”, “ I need the substance cause I cannot make it on my own”.   This becomes a clear example of what Watzlawick and Nardone (1997) explained as rational act that confirms an irrational belief.  The frequent use of drugs end up confirming the negative self-judgment, the negative prophecy. “ As Hobbes (1969) writes in Behemoth, “Prophecy is many times the principal cause of the events foretold”, thus the young before putting his abilities to the test, slave to his prophecy ends up “creating (a self-destructive future) out of nothing” (Anonymous, 1990).
Over time, this belief based on a negative prophecy, gets consolidated by the psychological relief and physiological pleasure given by the narcotic, entrapping the young person in a self-destructive viscous circle.  The recurring use and abuse of the substance strengthens the negative self-perception to confirm the underlying credence of being incapable to manage life-hurdles  with only one’s own resources.  In fact every time the Youngman turns to drugs he will be convey to himself two messages, which ensnares him in a double bind (Bateson, Jackson, Haley, Weakland, 1956; Nardone, Watzlawick, 2005; Nardone, Portelli, 2007). The first clear and most immediate message is “drugs are the solution to my problems”, while the second which is more subtle yet equally powerful is “Can not do it without drugs”.  This last message slowly lays its foundations in the person’s perceptions and reactions.  This need to delegate one’s responsibilities to the substance starts to grow, spreading like wildfire, granting drugs with an irreplaceable role in the life of the person, who fortifies his distrust in his/her abilities.  
Drugs become a reiterated failed attempted solution which like a heavy armour can at first give the illusion of protecting the person but which overtime end up imprisoning its consumer.  The person who uses, abuses and/or is dependent on cannabis, is caught in this double bind, which renders himself resistance to change.  We can call this subjects content oppositive persons (Watzlawick, Nardone, 1997) where the substance offers them numerous advantages (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005; Papantuono, 2007); advantages given directly from the substance (pleasurable physiological sensations, alienation from life problems, acceptance by the peer-group whose members share the same transgressive ritual, and others) and others which are granted indirectly and paradoxically by the family system (an not only- school, community, etc) around them. This is why involving the family members become a fundamental aspect of therapy. Also because it is they who often lament of the problem and ask for therapeutic and surely not the youngster who is still overwhelmed by the illusion of having found the right solution.  There are so many secondary gains, to stop the youngster to look for help (Watzlawick, Nardone 1997; Nardone, Mariotti, Milanese, Fiorenza, 2000; Nardone, Portelli 2005, Papantuono, 2007).  

Involving the family system in brief strategic-systemic interventions: reducing secondary advantages
Unfortunately, literature reveals that often when dealing with addictions and other psychological problems, the family system is put into play, or better put under investigation, to find the causes or better to find whom to blame for the youngster’s destructive behaviour. Once more this approach entraps the individual and the entire  family system in a vicious circle with no way-outs  because as far as we know, nobody can erase or change the past. Moreover, nature has and continuous to offer us, consistent substantial evidence that all phenomena seem to develop not from a mere deterministic linear causality but actually from a circular one, where all the elements in a system effect unconditionally one another, and the family system is no exception.
Brief strategic-systemic interventions involve the family in primis because besides the fact that they are usually the ones to lament of the dependency as a problem,  they are, in the great majority of the cases, responsible of offering further secondary gains to the use, abuse and addiction to drugs. In our contemporary society, individuals remain at home with their parents for an always longer period, taking advantage of the situation (attention, money, and home comforts). Often this “free-zone” allows the youngster to avoid taking adult-life responsibilities.  Parents, as Oscar Wilde denotes  with all the good intentions, end up producing the worst consequences”.


Family models: the overly responsible- avoiding responsibility continuum
Usually the coping attempts put forward by the family members to help their children who use, abuse and dependent on drugs can be placed onto a continuum (overly responsible- avoidance of responsibility) with one end co-notated by the parents’ belief “we have to do more because it is never enough”. In other words, these are those families that become always more in-charge of their son’s/daughter’s responsibilities, taking the place of the “fragile incapable” child so as to avoid loading him/her with responsibilities and difficulties which would require too much effort from their poor sons (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001). As a consequence, the youngster will continue to make use of the rather advantageous attitude, resisting to anything that might sabotage this situation which “after all it is not so bad”.   
The rigid overprotected, democratic-permissive and sacrificing “ family models” (Nardone, Giannotti, Rocchi, 2001) can be located on this side of the continuum since all tend to act “overly responsible” with their children, especially in times of trouble such as their son’s addiction. While delegating and authoritarian families tend to “avoid responsibility”. These are parents who feel disarmed in front of their son’s/daughter’s addiction and give up on the situation. Delegating parents belief that they are incapable or inadequate to help their child thus delegate this problem to others: own parents, friends, school, experts, specialists, etc. Authoritarian can not accept the fact that their son has gone against their teachings and failed their expectations, often arriving to renegade them as their son/daughter.  They feel that they have failed as parents and often react by giving up on their child.  Intermitting families, are in continuous doubt and tend to oscillate from one extreme to another.  
While abandoning the reassuring positivistc thesis of the existence of a “scientifically true” knowledge of reality (why is my son into drugs? What induced him to use, abuse and depend on drugs? Was it the school, his friends, are moving house? Are we parents to blame? etc) and a deterministic cause-effect approach, Strategic-systemic interventions are concerned with identifying operative constructive knowledge, that is to increase what von Glaserfeld (1984) has called “operative awareness”: to discover how things function and how to make them function better (Nardone, 1998; Nardone, Portelli, 2005).
Without any claim to a priori knowledge of phenomena at hand, the strategic therapist needs to have some “reducer of complexity” available, which will allow him to start working on the reality that needs to be modified, to gradually reveal its functioning and render it more functional. Based on the studies of the Palo Alto school (Watzlawick, Beavin, and Jackson, 1967; Watzlawick, Weakland, and Fisch, 1974; Watzlawick, 1977; Fisch, Weakland, and Segal, 1982), and on twenty years of research in the clinical context (Watzlawick and Nardone, 1997; Nardone, 1996; Nardone and Watzlawick, 2004; Nardone, Portelli, 2005; Milanese, Mordazzi, 2007), such a reducer of complexity has been found in the construct of attempted solutions.  We have observed that in problematic situations such as their son’s substance abuse, the parents’ attempts to reiterate the same ineffective solution eventually give rise to a complex process of retroactions in which the efforts to achieve change actually keep the problematic situation unchanged.  There seems to be a “circular causality” between how a problem persists and the dysfunctional ways people use to solve their problem (Nardone, Portelli, 2005).
With all the good intentions parents react in a certain way (attempted solutions- overly-responsible behaviour, avoid responsibility) in line with their beliefs (perceptions), but by doing so they will end up confirming their own (my son is weak, I’m no a good parent, nothing can be done) and their sons (I can not make it on my own, I need drugs) often irrational beliefs, giving way to a self-fulfilling prophecy.
Thus strategic-systemic approach focuses its intervention with the family by:
·         Blocking the redundant attempted solutions through direct or indirect manoeuvres.
·         Using in-session reframing that change the underlying dysfunctional perception, along with between-session solution-oriented techniques to change the dysfunctional prophecy.
In the majority of the cases, substance abusers are reluctant to come to therapy, because they do not perceive drugs as a problem and often they minimise and ridicule their parents preoccupations. And as we have mentioned earlier, drug use seem to bring along various secondary advantages which the youngster is often reluctant to lose.  So often therapy involves in-direct intervention with parents, to help them minimise as much as possible the secondary advantages which they were unaware of giving their son/daughter. Often this is enough to make the son take in consideration looking for help, since the negative aspects of his addiction might come to out-weigh the positive.
Yet clinical experience has lead us understand that even when the youngster comes to therapy with a desperate need to be help, he/she is very much resistant to change. We have learnt that most youngsters are oppositive or else would like to collaborate but are not able to. Clinical- experimental research has showed us that if we had to focalise therapy immediately on the abuse or addiction, defining it as the problem, this would  increase the patients’ resistance to therapy.  First we need to create an adequate therapeutic alliance, by tuning in with the patient’s “world”,  and we can start doing this first by using his own language (Nardone, Loriedo, Zeig, Watzlawick, 2006). So to avoid creating symmetry with the youngster, the session will be proposed as a means to evaluate the situation and the actual level of severity of their abuse, which might not coincide with the version presented by the parents.  This because in most cases, youngsters do not consider cannabis as a problem.  They will only come to “regret” their abusive behaviour and look for help, if the secondary advantages do not overweigh the negative aspects of their addiction.
During the first session, the therapist will try to identify what the youngster considers a problem, which can be his rapport with his/her parents who are to suffocating, his/her school profit, his/her relationship with the opposite sex, etc. The aim of the therapy would be that of helping the patient “learn better ways to manage his life”.  In other words, we start our work by defining with the youngster our objective by following a Chinese stratagem “lying by saying the truth”.
If the therapist manages in this mission, to capture the youngster, one might say that a good deal of the work has been done, so that the therapist can then proceed in helping the youngster free himself from his addiction.  Aristotle says “ a good start is half of the work” which fit well in such cases. The intent is to shed a ray of light for the youngster to follow, so as to come out from this dark seemingly endless tunnel.  Indirect-therapy can be the first step when there is high resistance to change. This intervention follows an old saying which states “to block the door with the foot to make space for the rest of the body”.
Yet even when the youngster continuous to be highly resistant to change, and does not actually arrive to therapy, in-direct therapy conveys the whole family system a sense of relief since during the therapeutic process they are given instruments that enable them to handle the problematic situation better, while helping them withdraw from being, with all the good intentions, accomplices of their son’s abuse.
The use of indirect therapy involving the parents of the abuser, is the result of an over-twenty-year clinical experience at the Centro di Terapia Strategica of Arezzo and its numerous affiliated clinics around Europe,  coordinated by Giorgio Nardone, which has been thoroughly presented in the textbook “Come Smettere di fumare”- How to stop smoking edited by Branka Skorjanec (in press). This indirect manoeuvre has resulted to be highly effective and efficient with cannabis addictions in young people since it overcomes the high resistance to change showed by the youngster, while empowering the parents in their often challenging child-rearing task.     



REFERENCES

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WATZLAWICK P. (1977), Die Möglichkeit des Andersseins: zur Technick der therapeutischen Kommunikation, Verlag Hans Huber, Bern.
WILDE O.  (1986) Aforismi. Milano: Mondadori.

Identificare e utilizzare le resistenze del paziente



Identificare e utilizzare le resistenze del paziente

Premessa

Cedi e sarai intero. Piegati e vincerai. Vuotati e sarai colmo. Il duro e l’inflessibile vengono infranti dal mutamento; il flessibile e il cedevole si piegano e prevalgono.
Ray Grigg, Il Tao delle relazioni tra uomo e donna







La resistenza in fisica è l’opposizione di un corpo o di un materiale  a farsi cambiare dall’esterno, la tendenza all’omeostasi. L’esterno (forza, corrente, pressione, ecc…) però in funzione delle prove specifiche con cui va a “sollecitare” il corpo può acquisire utili informazioni sul corpo stesso e può  misurarne la resistenza.

In psicoterapia cosi come in fisica la relazione tra il paziente (il corpo) e il terapeuta (l’esterno) prevede la resistenza. In questa particolare relazione essa può essere percepita o come un gradino utile per saltare e andare più lontani o può diventare come una pietra che fa inciampare e cadere.

Individuare la resistenza, sfruttarla attraverso la selezione del linguaggio e delle tecniche idonee, degli stratagemmi adeguati, questo consente al terapeuta di sintonizzarsi col paziente e di creare colui un clima di collaborazione che rende efficace ed efficiente il processo terapeutico nel suo complesso.
Nell’arco degli anni la ricerca sui casi effettuata dal team di ricercatori del Centro di Terapia Strategica presenti in tutta Italia, supervisionati mensilmente dal Professor G. Nardone, ha permesso di individuare quattro diverse tipologie di resistenza al cambiamento (Watzlawick, Nardone, 1997).

1)      Il <<collaborativo>>. È la persona che ha reali risorse cognitive ed è motivato al cambiamento. Sin dal primo contatto, si mostra non oppositivo e non squalificante. Si è constatato che la comunicazione che produce i cambiamenti desiderati più rapidamente è quella di tipo razionale-dimostrativo: a chi ci richiede il trattamento viene chiarito come si sta procedendo e i possibili effetti di ciò che viene indicato. Bisogna ricordare che questa persona pur essendo collaborativa non è un “addetto ai lavori”, per cui, la sua prospettiva sulla realtà ritenuta disfunzionale, ogni cosa, gli dovrà essere spiegata e ridefinita seguendo la logica <<cartesiana>>: deve comprendere ciò che non funziona in modo che possa essere portato verso una forma di cambiamento consapevole. Dalla nostra esperienza, i soggetti che rientrano in questa tipologia di resistenza, purtroppo sono pochi. Lo specialista dovrebbe accettare la collaboratività ma allo stesso tempo misurarla e lasciare che i fatti dimostrino che ci stiamo ritrovando di fronte ad un essere realmente collaborativo. Pertanto, l’indicazione è quella di procedere “step by step” (costruire un primo piccolo accordo, sulla base del quale costruire un secondo, sulla base del quale costruirne un terzo, e così via) sino al raggiungimento dell’accordo generalizzato. Ovvero: << Bloccare la porta con il piede per fare spazio al resto del corpo>>. Nel concreto, di solito, si dimostrano collaborativi sin dal primo incontro coloro che richiedono un intervento indiretto, ad esempio, in clinica un genitore che ha perso il controllo sul figlio, un partner consapevole che se continua così il suo rapporto finirà; nell’ambito del lavoro, un responsabile che vuole gestire meglio i suoi dipendenti, ecc… Tutte persone molto motivate, che non godono di vantaggi secondari dal disturbo, stremate dal problema. In questi casi, per ottenere il massimo col minimo, è opportuno collaborare, eleggere a coterapeuta chi ci chiede aiuto, sfruttare le risorse disponibili, farlo partecipare attivamente all’intervento, spiegargli le logiche delle tecniche che si stanno utilizzando e svelargli gli stratagemmi da utilizzare. Ovviamente la persona che si rivolge a noi sarà tanto più motivata a seguirci quanto più i risultati sono tangibili ed evidenti. Nelle terapie dirette, invece, la maggior parte delle volte, il paziente viene reso collaborativo. Questo traguardo, di solito segnato dal cambiamento di primo ordine, diviene il punto di partenza e semplifica i successivi cambiamenti che condurranno al cambiamento di secondo ordine.    

2)      Chi vorrebbe essere collaborativo ma non può: è uno con grande motivazione e necessità di cambiare. Tra questi pazienti vi sono: quelli che percepiscono il cambiamento come difficoltoso; altri, invece, si sono arresi al problema. In questi ultimi casi le tentate soluzioni reiterate nel tempo, oltre a mantenere e a complicare il problema, contribuiscono ad alimentare la resistenza che si è insidiata a tal punto da far perdere ogni speranza allo “sfortunato di turno”. Usualmente i soggetti in questione arrivano accompagnati da parenti (famigliari resi vittime dalla situazione). Sono quei pazienti che hanno l’illusione di poter controllare il problema, ad esempio chi lamenta ossessioni compulsive, chi è incastrato nel loop abbuffata-vomito ma che vorrebbe interromperlo, chi si astiene dal cibo o che in esso trova un sicuro rifugio fino al punto da non riuscire più a fare diversamente, persone invalidate, sfinite, rese schiave da ciò che un tempo aveva funzionato.
Anche le persone di questa categoria, come per altri, partendo da una premessa razionale attraverso una logica stringente arrivano a risultati irrazionali: costruiscono ciò che poi subiscono. Gradualmente si ingabbiano in una percezione della realtà disfunzionale e rigida e, sebbene comprendano razionalmente cosa dovrebbero fare per cambiare, non riescono a metterlo in pratica. Solitamente, blocchi emotivo-comportamentali, forti limitazioni di tipo morale-religioso, creano l’”imbroglio” e impediscono loro di agire nella maniera che ritenuta più funzionale.  
In terapia, in questi casi, soprattutto nei primi incontri, il paziente riuscirà a fare ciò che desidera solo se non si rende conto che lo sta facendo: la logica adottata è la stessa dettata dall’antico stratagemma cinese “solcare il mare all’insaputa del cielo” (anonimo 1990). Il terapeuta strategico prima di prescrivere, per predisporre il paziente al cambiamento riassume quello che avviene in seduta ed evoca sensazioni attraverso il linguaggio analogico. Per scuotere anche quelli più resistenti, quelli che si sono arresi, affinché seguano le indicazioni ristruttura la loro arrendevolezza avvalendosi dell’aforisma di Goethe “è sconfitto solo chi si arrende! La rinuncia è un suicidio quotidiano”. In genere il nostro interlocutore di fronte a tale affermazione resta in silenzio, viene colpito in pieno. Sarà disposto a seguirci per evitare di continuare a provare quella sensazione di sconfitta, per evitare di farsi distruggere dal disturbo. Le nostre indicazioni saranno come utili armi da sfoderare per combattere il nemico. La sensazione sperimentata incoraggerà, poi si sorprenderà alla prima vittoria: quando sente che può farcela solamente con le sue forze e mettendo in atto quelle indicazioni apparentemente illogiche e insensate. La sensazione di potercela fare riaccenderà la speranza. Il nostro paziente comincerà a vedere e a vedersi con una luce diversa. Si autoristrutturerà in seguito all’aver vissuto l’Esperienza Emozionale Correttiva (EEC). Le manovre velate, indirette, caricate di suggestione conducono il paziente verso la soluzione del suo problema. Inoltre, l’impressione di essere stato il protagonista principale del suo cambiamento lo renderà più collaborativo. Infatti, dopo lo stratagemma “solcare il mare all’insaputa del cielo”, il processo potrà tornare su criteri più cartesiani e razionalisti ed avvalersi della logica ordinaria. Il continuare a mettere in atto e a consolidare ciò che ha funzionato può diventare anche causa di quell’effetto che è il mio benessere”. Il soggetto verrà guidato al consapevole recupero delle sue risorse e delle sue capacità. 

3)              Il non collaborativo o oppositivo: questa tipologia di pazienti durante la sessione terapeutica squalificano, contestano, si oppongono. Al di fuori non osservano deliberatamente le indicazioni. Gli oppositivi possono essere: dichiaratamente tali, oppure più insidiosamente si celano sotto le spoglie di finti collaborativi.
Il primo led-spia è una richiesta esagerata, anche se presentata timidamente,  data come risposta alla domanda iniziale (“cosa la porta da noi?” o “qual è l’obiettivo che si è dato nel venire qui?”). Potrebbe essere un modo per opporsi alla terapia. Oltre a ristrutturare, si  ridefinisce  il problema o/e gli obiettivi evidenziandone l’improponibilità allo stato attuale (meglio sarebbe se attraverso il dialogo il paziente arrivasse a capirlo da solo). Sarebbe il primo intervento. Si disinnescherebbe la prima trappola tesa. In seguito, soprattutto se non eseguono i compiti, anche se ci sono stati piccoli cambiamenti che possono avvenire o nel corso della seduta o seguendo le prescrizioni basate sullo spostamento dell’attenzione, le possibilità che non si tratti di un collaborativo aumentano. Continuare a dubitare ed assumere la pozione dello scettico per evitare di farsi cogliere di sorpresa. Il terapeuta ingenuo credendo di trovarsi di fronte una persona disposta a collaborare, potrebbe compiere  l’errore o di cambiare continuamente le indicazioni, o di negoziare riguardo ai compiti da fare. Così facendo però colluderebbe col disturbo e, se va bene, allungherebbe i tempi di risoluzione altrimenti facendo il gioco della resistenza si creerebbero le basi per un piccolo rifiuto, seguito da altri fino a completarsi in un drop-out: queste modalità risulterebbero o poco efficaci o screditerebbero il terapeuta.
In genere i pazienti di questo tipo sono quelli che mostrano tratti ossessivi paranoici e depressivi, sono quelli che definiamo le “vittime del mondo”(i volti della depressione). In questi casi è opportuno persistere, essere direttivi e continuare a prescrivere le indicazioni già date e non eseguite.
Se seguitano a non mettere in pratica le indicazioni date al fine di evitare di sacrificare i vantaggi secondari che offuscano lo scenario futuro, a quel punto la resistenza al cambiamento di tipo oppositivo come macchia di olio resta in superficie. La proposta implicita di questi pazienti, in sintesi, è: il mondo e/o gli altri devono cambiare. In questi casi è opportuno perseguire con la stessa strategia: inflessibilità, piccoli passi nella stessa direzione e nessun compromesso. Lo stratagemma sarà “storcere per raddrizzare”. Frustrare ciò che esula dal problema individuato e da risolvere, richiamare all’impegno preso, rimandare le responsabilità: nella relazione porre “lineare contro circolare e circolare contro lineare”, ovvero rispondere con la simmetria (provocare, esorcizzare, aumentare) quando si avverte che stanno cercando complementarietà (nei momenti di vittimismo) e con la complementarietà quando esigono simmetria. A questo proposito ricordo il caso di un paziente che come il principe Ludwig rifiutava il mondo e restava chiuso nel suo castello ma allo stesso tempo si lamentava di questo dicendo che le persone erano troppo misere per lui. A tal riguardo aveva la presunzione di sapere cosa si sarebbe dovuto fare. Pretendeva dal terapeuta che intervenisse come lui si aspettava. Ma opportunamente provocato, sfociò in uno scatto di aggressività che il terapeuta abilmente sfruttò, ritorcendola su se stessa per annientarla:

P: … tu non mi aiuti quando sai come aiutarmi, perché tu lo sai come fare!
T: oh bellissimo!
P: perché tu non lo vuoi fare!?
T: ohhh! Allora, dimmi cosa so io che dovrei fare che mi rifiuto di fare?
P: lo sai bene! Tu dovresti, dovresti… incoraggiarmi, dovresti…puoi fare anche quello che fai ma devi riuscire a bilanciare, capisci?
T: poi, vai avanti, cos’altro dovrei fare per aiutarti?
P: Eh?!
T: Cos’altro dovrei fare per aiutarti, che io so che dovrei fare ma che mi rifiuto di fare?
P: ma tutto questo casino l’abbiamo fatto perché io ti devo dire quello che devi fare? devo sempre insegnare a tutti…
T: insegnami!
P: coi miei genitori, con tutti , devo sempre insegnare come fare…
T: devi essere sempre tu ad insegnare; ok! perfetto! fallo anche qui con me! Forza insegnami! 

Ad “effetto boomerang” il terapeuta ritorce la resistenza contro se stessa, mettendo il paziente in un doppio legame. Se non eseguiva l’indicazione significava, o che non sapeva cosa volesse e quindi umilmente si sarebbe dovuto affidare e seguire le nostre indicazioni, oppure accettare la situazione come il suo miglior equilibrio raggiungibile. Nel caso contrario, se ci insegnava: uno, assolveva al compito; due, sapeva cosa fare; tre, ci forniva degli strumenti che egli poi avrebbe dovuto mettere in pratica. In ogni caso si modificava il suo pattern relazionale.
Oltre a questi casi poi vi sono quelli dichiaratamente oppositivi sin dal primo incontro,in genere sono persone costrette a seguire la terapia. Sono soggetti che non si rendono conto delle difficoltà, anzi, traggono enormi vantaggi dalla situazione. Di questa sotto categoria fanno parte ragazzi adolescenti difficili, carcerati per i quali è previsto un percorso alternativo di reinserimento, ragazze compiaciute dalla compulsione di mangiare e abbuffarsi, giovani anoressiche che non percepiscono i rischi che corrono, ecc… Ove sia possibile rapportarsi direttamente e porsi one up; nelle prime fasi della terapia ristabilire le gerarchie (sono persone che tastano il terreno per prendere spazio e sabotare l’intervento); evitare di cedere a compromessi e squalificare le richieste che potrebbero pervenire. Con questi pazienti è come trovarsi in un tunnel e completamente al buio, l’unica cosa da fare è puntare verso la luce proveniente dall’uscita più prossima, procedendo passo-passo per evitare di inciampare, cadere e perdere tempo. Nei casi in cui la terapia diretta non sia possibile, lavorare indirettamente. Si elegge a coterapeuta chi avanza la richiesta. In genere, già interrompendo le tentate soluzioni di coloro che stanno intorno, la situazione si sblocca e si hanno i primi risultati. La fiducia acquisita dona forza e va ad alimentare i risultati. L’interruzione del circolo vizioso dà origine ad un circolo virtuoso vantaggioso per ognuna delle parti.
In sintesi, a livello tecnico, per tutti i casi, si dimostrano efficaci le manovre paradossali e la modalità retorica-persuasoria basata sull’utilizzo della stessa resistenza. Prescrivendo la resistenza al cambiamento, si pone il soggetto oppositivo in una condizione a doppio legame e paradossale che, inevitabilmente qualunque cosa faccia, lo condurrà contro la resistenza. Infatti, se egli continuasse a non eseguire il compito significa che non sarebbe più resistente; invece se lo esegue, adempie ed ugualmente non sarebbe più resistenza. La resistenza prescritta diviene adempimento. Anche in questo caso, dopo i primi cambiamenti ottenuti mediante un processo di influenzamento e persuasione basato sul paradosso, si procederà ad una ridefinizione cognitiva del processo di cambiamento.

4)      La persona non in grado di collaborare né di opporsi. In ambito clinico si tratta di quei soggetti che presentano una <<narrazione>> di se stessi al di fuori di ogni ragionevole realtà. L’espressione di questa resistenza riguarda soggetti presumibilmente psicotici (a proposito: fare attenzione soprattutto se si tratta di giovani o adolescenti. Confusione, disorientamento, uscite psicotiche, soprattutto a quest’età potrebbero essere solo dei fenomeni temporanei. Per cui, il ripristino delle normali funzioni mentali si potrebbe riavere in breve tempo e completamente se opportunamente trattati e se si evita di etichettarli erroneamente come psicotici. Rientrano inoltre in questa categoria anche persone con sintomi deliranti col tempo cristallizzati) e tutte quelle persone con una rigidità mentale così forte da impedir loro di uscire dalla propria visione della realtà e di rapportarsi adeguatamente a tutti gli altri. Soggetti che si sono isolati costruendosi delle regole e delle strutture proprie per un gioco che solo loro conoscono. In questi casi il terapeuta per poter operare dovrà calarsi nel gioco, dare quantomeno l’impressione che quel gioco gli sia noto e che ne padroneggi le regole. Nella pratica come si fa? Considerare innanzitutto che partendo da premesse razionali, attraverso un processo logico stringente, questi pazienti sono giunti a conclusioni irrazionali; quindi fare particolarmente attenzione ed entrare nella logica della rappresentazione rigida, assumerne i codici linguistici, adottare la stessa modalità semantica e la stessa scala di valori, evitare qualunque negazione e squalifica di tale costruzione, aggiungere elementi per riorentare in direzione diversa. Il terapeuta dovrà seguire molto attentamente le tracce della narrazione portatagli e aggiungere gradualmente degli elementi al narrato attraverso ristrutturazioni e parafrasi ristrutturanti. Gli elementi che si aggiungono al racconto o al “delirio” del paziente, come un ponte rende più agevole il passaggio da una riva all’altra dello stesso fiume, fungeranno da congiunzioni ponendosi tra la precedente realtà inventata del paziente (spesso vissuta in modo angosciante e come insopportabile, soprattutto nei momenti di maggiore e relativa lucidità, ovvero quando non è sotto effetto di farmaci) e la realtà guidata che con il terapeuta si costruisce, progressivamente trasformeranno il <<narrato>>. Il terapeuta, quindi, apportando piccole variazioni farà prendere al racconto una nuova direzione e una nuova forma, che introdotta nella dinamica mentale della persona condurrà, se ben calibrata, al sovvertimento della resistenza rendendo la persona o in grado di opporsi o tendente a collaborare. Come l’entropia conduce un sistema fisico all’autodistruzione nella prospettiva di un’evoluzione, così introdurre all’interno della logica disfunzionale del soggetto elementi che non contraddicono né squalificano le sue rappresentazioni, finiranno col condurlo a una completa ristrutturazione e verso nuove direzioni.